venerdì 15 luglio 2011

Ibridazioni senza maschere

Se metto un garofano rosso vicino a una rosa bianca, nel giro di poche ore, i suoi fiori prendono strane sfumature scarlatte.
Anche il garofano, a ben guardarlo, non resta identico a se stesso: il suo colore in rapporto al bianco è più forte e non subisce trasformazioni; la sua forma, in modo del tutto misterioso, tende però a adattarsi a quella a petali sovrapposti, tipica della rosa.
I due non per forza di cose si amano. Magari nemmeno si parlano o si piacciono granché.
Tuttavia, il richiamo della loro vicinanza - sebbene casuale - porta entrambi spontaneamente a rispecchiarsi con naturalezza e senza alcuna sovrastruttura consapevole.
Questa forma di ibridazione è presente in natura.
Se siano gli dèi - o  piuttosto qualche legge biologica precisamente nota agli umani - a favorire questo scambio tra esseri viventi, non fa molta differenza.
Quel che conta è il significato dell'ibridazione, anche al di là delle apparenze visibili.
Non esiste la possibilità di un contatto autentico che non passi attraverso un processo di contaminazione.
Nelle relazioni umane, con tutte le articolazioni e sfumature peculiari del caso, la faccenda si fa molto più complicata.
Molto spesso succede che le ibridazioni avvengano con tali forzature da indurre forme di rispecchiamento simbiotico o immaginario che finiscono per snaturare le identità dei singoli.
Questo non succede né al garofano né alla rosa.
E nemmeno a una mamma pastore tedesco che per ragioni indipendenti dalla sua volontà si ritrovi a allattare un cucciolo felino abbandonato a se stesso.
Il garofano non corre nessun rischio di diventare una rosa; lei, anche nel mutare il colore dei suoi petali, non perde le spine e non rinuncia alla sua intrinseca eleganza.
La mamma lupa, e il miciotto da lei nutrito, mantengono intatte le loro rispettive nature di cane e di gatto.
Per gli umani (maschi o femmine, adulti o bambini) le contaminazioni derivanti dalla vicinanza hanno effetti collaterali a volte drammatici.
Ci si potrebbe perdere nell'enunicazione di una analisi sociologica sull'effetto dei processi culturali nei rapporti tra le umane genti.
Oppure, molto più semplicemente, osservare le piante e gli animali per smettere di ostacolare con pregiudizi o con rigidità mentali l'incontro con gli altri. 
Imitare le piante, questo dovremmo fare.
Aprirci alle inevitabili contaminazioni, senza timore di perdere la nostra identità (di genere, individuale, di appartenenza), senza avere sospetti aprioristici di essere sopraffatti dalle differenze altrui.
Ricordarci che le lingue da noi parlate qui sulla terra, nascono tutte da millenni di liberi incontri e spontanee ibridazioni linguistiche.
Tenere a mente che la bella musica nasce sempre da un vortice di contaminazioni.
Imprimerci nell'anima e nella pelle che senza contaminarci non possiamo amare.
E al tempo stesso mantenere la consapevolezza che quando amiamo davvero non ci confondiamo con il nostro amore al punto da dover rinunciare a parti essenziali delle nostre identità multiple.
Possiamo veder nascere sfumature di colori nuovi sui nostri soliti petali bianchi; rispecchiarci in forme che ci trasformano; profumarci di aromi insoliti.
Ma restiamo noi stessi fino alla fine anche se proviamo a indossare ogni giorno maschere nuove per compiacere il prossimo, nell'illusione di manipolare la nostra o l'altrui natura come non oserebbero fare gli dèi.


domenica 10 luglio 2011

Eloquio fragile


L'elogio della forza si è indebolito nell'eccesso di fragilità.
L'eloquio sprofonda nell'incertezza, arranca di fronte a inutili esternazioni dialettiche.
Rispecchiamenti essenziali per la vita si sono persi in un gesto secco di negazione.
E' un mutismo mascherato di morte.
A disposizione solo specchi daltonici, un po' stonati.
Metamorfosi animali in femmine umane indebolite.
Voglia di desiderare la bellezza tradita.
L'eloquio fragile diventa il segno di un'altra forza.