lunedì 22 agosto 2011

Sei mesi a Marassi non si scordano mai. Breve storia di dignitosa sopravvivenza umana e professionale. [Parte Prima]

Lavorare in un carcere, per breve che possa essere il periodo di permanenza professionale, è sempre un’avventura unica e indimenticabile.
Se poi si lavora a stretto contatto con i detenuti in turni di 7 ore consecutive, l’esperienza diventa tosta per non dire estrema.
Se inoltre si è donna e si presta servizio in un carcere maschile dove oltre alla totalità dei detenuti anche il 95% degli agenti di Polizia Penitenziaria e dei colleghi sono maschi, la faccenda si fa assai dura e complessa.
Se poi il carcere in questione è quello di Marassi (uno dei più alienanti luoghi di detenzione presenti nei paesi democratici), il percorso può diventare parecchio accidentato e non privo di rischi. Ma non certo per colpa dei detenuti e neppure del personale di Polizia Penitenziaria.
L’idea di andare a lavorare nel carcere di Marassi mi attraeva da tempo, forse fin da quando ero un’adolescente insofferente e tendenzialmente anarcoide come capita a molti in fase di crescita.
Va da sé che il fatto di essermi intestardita alla soglia dei 40 anni per raggiungere il mio obiettivo un po’ ‘perverso’ possa costituire un’evidente prova del non essere mai cresciuta abbastanza. Di sicuro la mia determinazione testarda non è stata scalfita dall’inesorabile trascorrere dei lustri.
Dall’idea pura, covata intorno ai 16 anni, al mio primo passo reale dentro al carcere di Marassi ci sono voluti quasi 5 lustri, una laurea in Scienze della Formazione, due specializzazioni post-laurea, svariate esperienze lavorative nel mondo del sociale e, soprattutto, un simpatico signore dalle spiccate propensioni criminali che ebbi la fortuna di seguire con dedizione nell’ambito di un progetto per fasce deboli a bassa soglia. Lo seguii così bene che un bel giorno, per non compromettere il lavoro già fatto e per rispettare l’impegno di un colloquio già fissato con largo anticipo, l’unico modo fu per me quello di richiedere l’autorizzazione a effettuare il colloquio in carcere. La propensione a giocare a guardie e ladri di questo ex-ragazzo squinternato era infatti così incontenibile che in un sol gesto di perfetto autolesionismo vide bene di farsi revocare la semi-libertà.
Sono trascorsi 6 anni precisi dal giorno in cui entrai per la prima volta in carcere. Il primo impatto con una realtà così sconvolgente, da qualunque parte della ‘barricata’ ci si possa situare (ovviamente con le differenze del caso), appartiene ai momenti più straordinari della vita di un essere umano. Ricordo molto bene com’ero vestita quel giorno. Date le circostanze l’abbigliamento  non è affatto un particolare di poco conto. Ero una donna, eravamo in piena estate, ero tanto incuriosita quanto terrorizzata di non essere all’altezza della situazione, solo il dilemma se rinunciare ai sandali infradito per indossare un paio di Adidas mi aveva consumato ore di sonno, se da un lato escludevo a priori l’idea di presentarmi con la mia solita canottiera estiva, dall’altro trovavo ancor meno sensato l’avvolgermi in qualche improbabile pastrano dall’effetto copertura-difesa. Optai per mantenere il mio solito stile ma per condirlo di un’aura di impercettibile professionalità: infradito bianchi quasi eleganti, pantaloni rosa con le pinces, canottiera rosa in tinta appena visibile sotto una maglina di cotone blu scuro a maniche corte.
Arrivai all’ingresso, al portone principale l’agente di turno si spese in domande di rito e complimenti vari per i miei pantaloni rosa, mentre mi chiese se fossi dottoressa in psicologia e io gli menzionai la pedagogia, con mia enorme sorpresa, lo vidi intraprendere un discorso sull’importanza dei pedagogisti in carcere che mi incoraggiò al punto di farmi sentire di aver fatto la cosa giusta al momento giusto. La paura che mi stava paralizzando le gambe, e stava per fissare il mio sguardo in un’espressione allertata, svanì d’improvviso per lasciare spazio al mio sorriso spontaneo pieno di imprevedibile coraggio. Ebbi anche la fortuna di essere scortata da agenti gentilissimi attraverso gli innumerevoli passaggi che mi avrebbero condotta alla stanza del colloquio.
Passata la seconda porta, dopo aver depositato la borsa e il telefonino negli appositi armadietti, vidi per la prima volta la famosa ‘rotonda’ di Marassi di cui nella vita mi capitò di sentir parlare come dell’immagine di un inferno per nulla letterario. In effetti, a prima vista la famosa rotonda aveva un’apparenza decisamente infernale: la sua forma circolare sembrava studiata appositamente per concentrare le tensioni incontenibili che provenivano dalle varie sezioni del carcere.
Quando arrivai nella sezione prestabilita ebbi una seconda fortuna, quella decisiva a farmi mantenere intatto il desiderio di tornare un giorno a lavorare lì dentro: rimasi così sconvolta nell’intravedere dalla finestra della stanza-colloqui due detenuti passeggiare avanti e indietro come bestie impazzite in un sottile lugubre corridoio adibito a ora d’aria che l’agente accompagnatore, con slancio di grande sensibilità, mi propose al volo di cambiare la stanza del colloquio. Nell’arco di una manciata di secondi quell’immagine terribilmente disumana registrata dal mio sguardo, scivolò via senza depositarsi in profondità.
A quel punto rimasi sola nella stanza a aspettare il mio simpatico amico per alcuni memorabili minuti nei quali vidi spuntare i sorrisi di sorpresa tra i più belli che io ricordi nella mia vita: erano altri detenuti che si affacciavano in cerca dei volontari (sul genere anziano frate missionario) e invece trovavano una giovane donna in rosa e blu. Di fronte a quei sorrisi così speranzosi, il mio slancio adolescenziale divenne tutt’uno con l’umanità del presente e mi ritrovai a immaginare la voce esortante di Fabrizio De André che sopraggiungeva dal vicinissimo cimitero di Staglieno. A posteriori pensai che il suono della voce di FdA mi avesse aiutata a contenere l’impatto traumatico con la maschera di disperazione che scorsi nel volto e nel corpo dell’uomo distruttivo da me seguito fin dentro le mura del carcere.
L’incontro tra due paure umane di segno diverso lascia aperta la possibilità che, superato il primo momento di disorientamento, si realizzi un incrocio complementare anziché speculare. Quel giorno per mia fortuna andò proprio così: nel rispecchiarmi in un uomo, solitamente travestito da duro, che in veste di detenuto era visibilmente sconvolto dalla paura e dalla rabbia compressa di essere l’unico artefice della propria sventura, non mi feci cogliere dal panico e provai a sintonizzarmi sulla mia parte più fiduciosa. Purtroppo a lui il colloquio servì a poco o a niente, s’era cacciato in un guaio quasi irrimediabile per gli anni a venire. Per me invece quella fu la spinta decisiva per scegliere, di lì a alcuni mesi, di realizzare davvero l’antica idea di lavorare in carcere.
Sono passati 4 anni da quando lavoravo a Marassi. Ci sono stata 6 mesi, nel periodo appena successivo all’indulto. Figuravo come Educatrice professionale sebbene io sia Pedagogista con specializzazioni in Counselling e Mediazione Familiare e con una variegata esperienza professionale nelle relazioni di aiuto alle fasce deboli.
Nel carcere di Marassi mi sono fatta tutta un’estate compreso il mese di agosto, quello durante il quale in ogni Istituzione Totale che si rispetti - come del resto accade anche agli umani in libera circolazione - aumenta in modo esponenziale il tasso di depressione, di autolesionismo e il rischio di suicidio tra coloro che disgraziatamente si ritrovano sprovvisti di permessi premio o di benefici di legge.
A differenza di quanto in prima istanza si possa pensare, dal punto di vista delle relazioni umane, le fasi post-indulto sono molto più ingestibili di quelle ordinarie. Il problema è dato dalla combinazione di due fattori potenzialmente esplosivi: i detenuti che non rientrano nell’indulto spesso hanno commesso reati particolarmente gravi o ‘infamanti’ e si sentono comunque doppiamente stigmatizzati (se non banalmente sfigati) per il fatto stesso di restare chiusi; la relazione quotidiana educatore/detenuto si trasforma facilmente in un rapporto 1 a 1, la qual cosa tra le cupe sbarre di sconsolate celle presenta enormi controindicazioni e scarsissimi vantaggi.
La consapevolezza costante di questa cornice di riferimento mi ha aiutata molto a sopravvivere senza riportare gravi effetti collaterali a un semestre di ‘volontaria’ detenzione in un carcere maschile.
Ma c’è di più e tengo molto a ricordarlo.
In carcere è solo grazie alla lucidità professionale e alla naturale propensione a mettere in gioco la propria nuda umanità se si crea un rapporto di fiducia tra le persone che ogni giorno entrano e escono e coloro che sono chiusi fino a fine pena.
Analogamente se una donna entra quotidianamente tra le mura del carcere senza sentirsi spogliata giorno dopo giorno della propria femminilità (e se soprattutto non rischia di essere spogliata per davvero) è solo in ragione del riconoscimento di qualità professionali percepibili e di elementi di forza intuitivamente rilevabili.
Sia chiaro, non è che il personale maschile in servizio in un carcere maschile non corra comunque dei rischi nella sfera personale o intima. E' però evidente che la provocazione maschio/maschio in un contesto così rigido si riconduca naturalmente a dinamiche di forza molto più semplici e lineari. Per le stesse ragioni è pur vero che le possibilità di incidere positivamente nella relazione con i detenuti da parte di personale femminile preparato sul piano professionale e umanamente adeguato al contesto, siano maggiori.
Nel mio caso, all’orgoglio di essere stata all’altezza della situazione e alla dignitosa sopravvivenza, si è infine aggiunta anche l’indimenticabile soddisfazione di aver saputo vivere un’esperienza umana e lavorativa di rarissima profondità.
[Fine Prima Parte]