sabato 27 ottobre 2012

Siamo tutti in pericolo?


Il pensiero magico in assenza di note

Nella "situazione"


Siamo nel 1975.
Siamo a Roma.
E' il 1° novembre quando, sul far della sera, Pier Paolo Pasolini si fa intervistare da Furio Colombo.
L'ultima intervista della sua vita, l'ultima intervista che ci resta di PPP prima che fosse brutalmente trucidato in circostanze coperte da cento segreti (di Stato e non), nella tragica notte di domenica 2 novembre '75.
L'intervista è integrale, tuttavia risulta incompiuta poiché PPP esplicitò al suo intervistatore la volontà di apporre alcune note per limare le sbavature assolutistiche e gli comunicò il desiderio di scrivere, per la mattina seguente, una dignitosa conclusione.
Mai si sarebbe potuta immaginare conclusione più terribile di sapere il suo corpo martoriato da una violenza inaudita, morto ammazzato con le ossa spappolate, con la carne dissanguata.
La "situazione" della agghiacciante notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 sembra già essere contenuta - come un presagio inspiegabile, come un'aporia - nelle prime righe dell'intervista.

L'effetto del sole che attraversa la polvere

Come un presagio, come un'aporia



Furio Colombo

SIAMO TUTTI IN PERICOLO


Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le quattro e le sei del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell'incontro che appare in questa pagina è suo, non è mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po', ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha portati sull'argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. "Ecco il seme, il senso di tutto - ha detto - Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi Perché siamo tutti in pericolo".

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò "la situazione", e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La "situazione" con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della "situazione". Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo...

Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d'accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l'esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, "assurdo" non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell'Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, "la situazione", e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.

Ecco, descrivi allora la "situazione". Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po' l'effetto del sole che attraversa la polvere. E' un'immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.

Grazie per l'immagine del sole. ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e che ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono tante macchine che sbattono l'una contro l'altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l'orario ferroviario dell'anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c'è un complotto. Sopratutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori, E' facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po' per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che "lava" le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per "scegliere". Quando stai con la faccia schiacciata contro quell'ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l'uomo normale, con l'aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e "collabora", (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L'altro - o gli altri, i gruppi - ti vengono incontro o addosso con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal "potere"?

mercoledì 17 ottobre 2012



Vertigini

Suoni indelebili
ascoltano
la eco permanente
di vecchie stanze 
con umori frastagliati

Il possibile dà le vertigini

Passo dispari
abbi cura della traccia
che rintraccia
l'istanza di parità
in assenza di rabbia

L'impossibile è sgradito alla verità

Contorsioni lievi
tratteggiano le geografie
del presente
beata l'ignoranza
del segno di un non-senso

La probabilità sa accadere

Ti presento il presente
colui che ama sfugge
dorme sul fondo
riposa il respiro
dove presto sospirerà

L'evanescenza evapora da sé

Due vele
due viandanti
vagabondi di mare
due ruote spaesate
scivolano nella terra asciutta

Il tempo contempla spazi temporali



venerdì 12 ottobre 2012



Indossavo la fierezza degli Indiani d'America



Il primo costume in maschera che ricordo di aver indossato risale a quando avevo 3 anni e mi trovavo a Cambridge, in Massachusetts, a una festa di Halloween. Lo aveva cucito mia madre con avanzi di stoffa di panno celeste e rosa, era uno splendore, mi sentivo perfettamente a mio agio.
Poi giunse il triste periodo in cui mi propinavano orribili travestimenti da damina dell'Ottocento e il mio disagio raggiungeva livelli inenarrabili.
Cominciai allora a insistere con mia madre per allargare il ventaglio delle possibilità, spostai la questione sul piano a lei più affine (quello ideologico).
Inaugurai l'era dei travestimenti da Sioux.
Mi facevo le trecce, mi incorniciavo il volto con un sacco di piume colorate, andavo a caccia di pantaloni e stivaletti scamosciati, mi presentavo alle feste con tanto di arco e frecce.
Indossavo la fierezza degli indiani d'America.
I bambini travestiti da nordisti (compreso mio fratello) mi lanciavano sguardi misti di ammirazione e di invidia, tutti indistintamente volevano impossessarsi del mio arco.

giovedì 4 ottobre 2012

La dura vita dei personaggi a loro insaputa



La cruda realtà della vita a propria insaputa


Poveracci, dev'esser dura la vita a propria insaputa, richiede una dose di coraggio inusuale.
Tu pensi di essere sfrattato e ti immedesimi nella parte di quello senza fissa dimora e, zac, ti tocca rassegnarti in un batter d'occhio all'idea di possedere un attico nel centro di Roma.
Tu pensi di essere disoccupata, sei colta da crisi depressive incontrollate e, zac, di colpo ti ritrovi a scoprire il peso del tuo status di lavoratrice dipendente e, udite udite, senza che nessuno si sia preso la briga di informarti.
E' veramente crudele la vita con i nuovi personaggi a loro insaputa.
Credono di essere in un posto mentre in realtà sono da tutt'altra parte o dappertutto o in nessun luogo.
Soffrono di crisi di identità da far invidia ai casi clinici affetti da disturbo di personalità bipolare.
Avrebbero bisogno di cure costanti per affrontare una realtà quotidiana talmente imprevedibile da generare nella loro psiche, proprio a causa dell'instabilità esistenziale, attacchi di panico a ripetizione.
Eppure - eppure a ben guardarli - chissà perché hanno un aspetto così raggiante rassicurante convincente vincente suadente ammiccante sogghignante...
Sarà per via della fatica di dissimulazione costante della reale condizione di indigenza che costoro si ritrovano ridotti così, spezzati dentro, miseramente costretti a indossare una maschera, frantumati dalla crudezza del vivere?