martedì 13 dicembre 2011

L'uomo che aveva scambiato le scarpe con lo zucchero filato



Usava matasse di zucchero filato al posto delle scarpe.
I grossi ragni rubavano i fili per farne tele giganti.
Si ritrovò al centro di una ragnatela, a piedi scalzi.
Paralisi numero uno.
Strozzò i fantasmi con la sola forza della fantasia.

Paralisi numero due.
I nodi erano troppo stretti.
Prese a contarli anzichè a scioglierli.
Paralisi numero tre.
Il gatto che praticava yoga spostò i ragni di qualche metro.
La tela divenne blu, si fece acqua.
Un tuffo di testa riscucchiò tre paralisi di zucchero a forma di scarpe.

martedì 29 novembre 2011

Una pensosa leggerezza




Pietro Marchesani
Wislawa Szymborska

Alla leggerezza mentale si accompagna un'eguale leggerezza espressiva, costruita con una lingua semplice, comune, spesso colloquiale, dove il soggetto lirico non si isola né si distingue dagli altri soggetti. Anche qui nulla di più ingannevole di tale semplicità, tutta e solo apparente.


martedì 22 novembre 2011

A c r o b a t


Quel giorno a far saltare il disco sul piatto
nessuna nuvola di polvere intorno alla puntina.
Piuttosto un solco profondamente irrispettoso sul lato A.
L'improvvisa dissacrazione della suprema armonia.
Un lampo di vigliaccheria distruttiva senza direzione.
Voce graffiata d'insicurezza,
musica insincera,
chitarra distorta,
corde tirate oltre il possibile
per ridurre la realtà all'unica dimensione controllabile.

martedì 15 novembre 2011

La vie en bleu.


J'ai dit
C'est un escamotage. Mais ça n'existe pas.
Il m'a dit
Oui, c'est ça. Tu as bien compris.
C'est ta langue. Bienvenue chez moi.

sabato 12 novembre 2011

La cifra di un'epoca: l'inganno palindromo.



Giochi di inganni concentrici nella comunicazione quotidiana, oramai fuori controllo.
Questa la cifra della nostra epoca.
Piccoli o grandi gesti di manipolazione della realtà.
Ecco che la data 11.11.2011 viene omologata dai media all'11.11.1111.
Con contorno di grottesca sensazionalità, tutti a conformarsi all'idea totalmente infondata che
11.11.2011 sia un numero palindromo come il suo presunto omologo più vecchio di 900 anni.
A nessuno importa che quest'ennesima sciocchezza mediatica sia dovuta alla manipolazione del reale.
Chi fa osservare la differenza evidente tra le due date, disvelando lo sciocco inganno del palindromo contemporaneo, viene tacciato di sofismo anocronistico.
Viva il sofismo, allora.
Quanto al chronos, triste è un'epoca che ne trascura il senso.

mercoledì 9 novembre 2011

Improvvisazioni per voce e istinto.


Il primo improvviso ruota nell'infinito.
L'improvviso numero due arrangia il tempo perfetto.
Nel terzo la profondità irrompe e si deposita.
L'improvviso numero quattro orienta l'istinto.
Il silenzio per voce innamorata è il quinto improvvisare.
Cessione di passo al sesto.
Mistero d'improvvisazione senza numero.

domenica 23 ottobre 2011

La danza degli alberi e i quattro elementi.

Venne il sabato della danza degli alberi e dei quattro elementi.
Fu un pomeriggio di luce calda intrecciata a sospiri di vento.
Fu il giorno della fiaba danzata nei suoni del bosco.
E furono ritmi di Hatha Yoga
l'unione dei due contrasti
la luna che bacia il sole
radici di terra
lava incandescente
nuvole giocose
l'oceano coperto di pace.

SCENARIO per CUORE APERTO

L u o g o   Isola del vulcano

A b i t a n t i   I s o l a 
Alberi secolari
Delfini irriverenti
Nuvole magiche
Fiume di lava incandescente

Isola del vulcano
I quattro elementi: terra acqua aria fuoco
E’ un’isola dove l’uomo non è mai arrivato.
Vi abita da migliaia di anni un vulcano maestoso.
Non esiste alcun modo di raggiungerla, a meno di trasformarsi in pesci oceanici o animali volanti.

Alberi secolari - Terra
Sono alberi centenari che conoscono la capacità di rigenerare la vita anche quando degli uomini incauti si permettono di offenderli o si illudono di poterli abbattere definitivamente.

Delfini irriverenti  - Acqua
Sono delfini prelevati dal mare aperto, costretti per un lungo periodo in pochi metri di piscina artificiale a esibirsi in sciocchi ammaestramenti. Un bel giorno, con un inchino irriverente, dicono ‘Ciao ciao a tutti!’ per riprendere la via del mare aperto, tornando a sguazzare liberi nelle acque situate intorno all’Isola del vulcano.

Nuvole magiche - Aria
Sono nuvole che, grazie a un particolare giro di vento dell’isola, volano così basse da accarezzare il terreno, giocare con le onde del mare, affacciarsi nella pancia del vulcano per corteggiarlo.

Fiume di lava incandescente - Fuoco
Il fiume di lava incandescente si nasconde per mesi e anni nella pancia del vulcano.
Nei giorni del gran mistero, si sveglia e inizia a scorrere lento dalle pendici del vulcano fino alla spiaggia.

*** ***
Libera ispirazione per la danza
La danza delle grandi madri
Clarissa Pinkola Estés, Frassinelli, 2006

Chi può dire che una cosa a noi cara
 tagliata  in mille pezzi
sia davvero morta?

Gli alberi figlie
Ogni albero ha, sottoterra, una visione primaria di se stesso. Sotto la terra il venerabile albero custodisce “un albero nascosto”, ancorato a radici vitali che attingono incessantemente ad acque invisibili. Da queste radici, l’anima nascosta dell’albero spinge l’energia verso l’alto [e anche verso l’altro], così che la sua vera e più audace e sapiente natura sbocci in superficie.

[...] ebbe inizio ciò che io chiamo “un miracolo lento”. Dal ceppo piatto del vecchio albero della grande madre [abbattuto per mano di uomini incauti], spuntarono dodici alberelli. Diritti. Robusti. Ondeggianti. Che danzavano in cerchio. In cima al ceppo. Lungo i suoi bordi…dodici alberi danzanti.
I dodici alberi che si innalzarono dal corpo della vecchia pianta di pioppo erano chiaramente le sue figlie. Nel mito un simile “albero con i germogli” è talvolta chiamato “albero del cerchio fatato”; spiriti che germogliano da una pianta apparentemente morta… per danzare e danzare nella nuova vita di gioia. Le piante non sono seminate. Sono evocazioni.

martedì 18 ottobre 2011

Il sogno del NON bambino.

C'era una notte,
la notte del sogno del bambino imprigionato nel fascino del NON.
NON si poteva più separare dal NON.
Che per lui NON era una parola magica.
Una parola che si legge allo stesso modo da sinistra verso destra e da destra verso sinistra.
Ripeteva sempre che NON
NON può NON essere una parola magica.
Era il bambino che NON dormiva mai.
Il bambino che NON dormiva perché NON poteva tacere.
Così il bambino parlava sempre, giorno e notte, pur di NON dormire.
NON parlava per parlare, solo per NON tacere.
NON stava sveglio per il desiderio di essere sveglio.
Solo per intima fedeltà all'idea di NON dormire.
Mentre si accorgeva di trasformarsi nel NON bambino veniva colto da attacchi di panico.
Allora chiedeva aiuto alla mamma o a ogni adulto che gli volesse bene.
Perché lui NON voleva essere prigioniero della sua paura.
E NON voleva restare un NON bambino per sempre.

giovedì 6 ottobre 2011

sabato 24 settembre 2011

Se l'arte fa paura.

Una ventina di puntate di Passeparout già pronte.
Eppure, la magica trasmissione della domenica di Philippe Daverio, è stata improvvisamente uccisa dal CdA della Rai.
Se l'arte viene considerata come qualcosa di superfluo e inutile, non si può non aver paura del contesto nel quale si sta vivendo.
Si dirà che nel nostro paese ci sono cose ben più preoccupanti della cancellazione di alcune trasmissioni televisive.
Tuttavia, se viene cancellato d'improvviso (senza alcuna motivazione attendibile) un programma della televisione pubblica non salottiero ma dedicato alla formazione estetica dei suoi numerosi spettatori, la faccenda deve destare un ragionevole allarme.
Se Passepartout è morto, nel più completo disinteresse generale, l'allarme è desto.
Bisognerebbe domandarsi come mai la notizia non ha suscitato reazioni minimamente paragonabili agli annunci, più o meno veritieri, di cancellazione di altre note trasmissioni della Rai di qualità assai discutibile.
Ma la domanda attualmente suona così retorica da sembrare addirittura sciocca.

martedì 20 settembre 2011

Ricette seriali per bambine da presidente.

















In questi giorni di ulteriori raccapriccianti intercettazioni a carattere surreal-sessuale, una serie di quesiti in forma di scatola cinese ricorrono nella mia mente.
Come è potuto accadere che nel nostro paese esista addirittura un vero e proprio esercito di 'bambine' del presidente (tra le quali, triturate in un orrido mix di volgarità e perversione, compaiono peraltro alcune quarantenni) cresciute col mito della prostituzione istituzionale e televisiva?
I loro genitori cosa accidenti fanno nella vita?
E chi invitavano alle feste di compleanno di queste belle piccine quando erano alle elementari?
Ma, soprattutto, con quale diavolo di ricetta seriale hanno saputo crescere centinaia di ragazzine appassionate di riti orgiastici per vecchi riccastri (im)potenti, collezionisti del porno kitsch de' noantri?
(che nel bel paese mica potevamo farci mancare i travestimenti da suora e da poliziotta - si badi bene - con uniformi originali).
Averne voglia di rispondere a queste domande...
Ogni tentativo di articolazione di un pensiero pensato, lascia la mente inesorabilmente vuota.
Come si potessero azzerrare millenni di sapere umano in un unico momento.
Anche se naturalmente non è così, il senso di sgomento per l'anomalia che stiamo vivendo - anomalia subita da 60 milioni di italiani all'incirca come da pulcini rinchiusi a migliaia in minuscole gabbie - è ormai radicato nell'inconscio collettivo.
Un inconscio collettivo paralizzato dall'eccesso, del tutto inedito, di pubblica perversione socialmente stratificata.


martedì 13 settembre 2011

Una civiltà di insetti. Conversazione immaginaria tra I. Bergman e W. Allen

Tempi moderni

IB: ' Ho la netta sensazione che il nostro mondo stia per andare a picco. I nostri sistemi politici sono profondamente deteriorati e non servono più a nulla. I nostri modelli di comportamento sociale - interiori e esteriori - si sono dimostrati fallimentari. La cosa tragica è che non possiamo, né vogliamo, né abbiamo la forza di cambiare direzione. E' troppo tardi per le rivoluzioni e tutto sommato, nel profondo di noi stessi, non crediamo più neppure che possano sortire effetti positivi. Dietro l'angolo è in agguato una civiltà di insetti, che prima o poi prenderà possesso del nostro mondo iper-individualista. Per il resto sono un rispettabile socialdemocratico.'

 

WA: ' Non ho un grande concetto delle istituzioni. Credo che il tratto saliente dell'esistenza umana sia la disumanità dell'uomo nei confronti del prossimo. Se la osservassi da lontano, se fossimo osservati dagli alieni, penso che l'impressione sarebbe questa. Non credo che sarebbero ammirati della nostra arte o di ciò che abbiamo conquistato. Credo che sarebbero stupefatti dalle carneficine e dalla stupidità.'

lunedì 22 agosto 2011

Sei mesi a Marassi non si scordano mai. Breve storia di dignitosa sopravvivenza umana e professionale. [Parte Prima]

Lavorare in un carcere, per breve che possa essere il periodo di permanenza professionale, è sempre un’avventura unica e indimenticabile.
Se poi si lavora a stretto contatto con i detenuti in turni di 7 ore consecutive, l’esperienza diventa tosta per non dire estrema.
Se inoltre si è donna e si presta servizio in un carcere maschile dove oltre alla totalità dei detenuti anche il 95% degli agenti di Polizia Penitenziaria e dei colleghi sono maschi, la faccenda si fa assai dura e complessa.
Se poi il carcere in questione è quello di Marassi (uno dei più alienanti luoghi di detenzione presenti nei paesi democratici), il percorso può diventare parecchio accidentato e non privo di rischi. Ma non certo per colpa dei detenuti e neppure del personale di Polizia Penitenziaria.
L’idea di andare a lavorare nel carcere di Marassi mi attraeva da tempo, forse fin da quando ero un’adolescente insofferente e tendenzialmente anarcoide come capita a molti in fase di crescita.
Va da sé che il fatto di essermi intestardita alla soglia dei 40 anni per raggiungere il mio obiettivo un po’ ‘perverso’ possa costituire un’evidente prova del non essere mai cresciuta abbastanza. Di sicuro la mia determinazione testarda non è stata scalfita dall’inesorabile trascorrere dei lustri.
Dall’idea pura, covata intorno ai 16 anni, al mio primo passo reale dentro al carcere di Marassi ci sono voluti quasi 5 lustri, una laurea in Scienze della Formazione, due specializzazioni post-laurea, svariate esperienze lavorative nel mondo del sociale e, soprattutto, un simpatico signore dalle spiccate propensioni criminali che ebbi la fortuna di seguire con dedizione nell’ambito di un progetto per fasce deboli a bassa soglia. Lo seguii così bene che un bel giorno, per non compromettere il lavoro già fatto e per rispettare l’impegno di un colloquio già fissato con largo anticipo, l’unico modo fu per me quello di richiedere l’autorizzazione a effettuare il colloquio in carcere. La propensione a giocare a guardie e ladri di questo ex-ragazzo squinternato era infatti così incontenibile che in un sol gesto di perfetto autolesionismo vide bene di farsi revocare la semi-libertà.
Sono trascorsi 6 anni precisi dal giorno in cui entrai per la prima volta in carcere. Il primo impatto con una realtà così sconvolgente, da qualunque parte della ‘barricata’ ci si possa situare (ovviamente con le differenze del caso), appartiene ai momenti più straordinari della vita di un essere umano. Ricordo molto bene com’ero vestita quel giorno. Date le circostanze l’abbigliamento  non è affatto un particolare di poco conto. Ero una donna, eravamo in piena estate, ero tanto incuriosita quanto terrorizzata di non essere all’altezza della situazione, solo il dilemma se rinunciare ai sandali infradito per indossare un paio di Adidas mi aveva consumato ore di sonno, se da un lato escludevo a priori l’idea di presentarmi con la mia solita canottiera estiva, dall’altro trovavo ancor meno sensato l’avvolgermi in qualche improbabile pastrano dall’effetto copertura-difesa. Optai per mantenere il mio solito stile ma per condirlo di un’aura di impercettibile professionalità: infradito bianchi quasi eleganti, pantaloni rosa con le pinces, canottiera rosa in tinta appena visibile sotto una maglina di cotone blu scuro a maniche corte.
Arrivai all’ingresso, al portone principale l’agente di turno si spese in domande di rito e complimenti vari per i miei pantaloni rosa, mentre mi chiese se fossi dottoressa in psicologia e io gli menzionai la pedagogia, con mia enorme sorpresa, lo vidi intraprendere un discorso sull’importanza dei pedagogisti in carcere che mi incoraggiò al punto di farmi sentire di aver fatto la cosa giusta al momento giusto. La paura che mi stava paralizzando le gambe, e stava per fissare il mio sguardo in un’espressione allertata, svanì d’improvviso per lasciare spazio al mio sorriso spontaneo pieno di imprevedibile coraggio. Ebbi anche la fortuna di essere scortata da agenti gentilissimi attraverso gli innumerevoli passaggi che mi avrebbero condotta alla stanza del colloquio.
Passata la seconda porta, dopo aver depositato la borsa e il telefonino negli appositi armadietti, vidi per la prima volta la famosa ‘rotonda’ di Marassi di cui nella vita mi capitò di sentir parlare come dell’immagine di un inferno per nulla letterario. In effetti, a prima vista la famosa rotonda aveva un’apparenza decisamente infernale: la sua forma circolare sembrava studiata appositamente per concentrare le tensioni incontenibili che provenivano dalle varie sezioni del carcere.
Quando arrivai nella sezione prestabilita ebbi una seconda fortuna, quella decisiva a farmi mantenere intatto il desiderio di tornare un giorno a lavorare lì dentro: rimasi così sconvolta nell’intravedere dalla finestra della stanza-colloqui due detenuti passeggiare avanti e indietro come bestie impazzite in un sottile lugubre corridoio adibito a ora d’aria che l’agente accompagnatore, con slancio di grande sensibilità, mi propose al volo di cambiare la stanza del colloquio. Nell’arco di una manciata di secondi quell’immagine terribilmente disumana registrata dal mio sguardo, scivolò via senza depositarsi in profondità.
A quel punto rimasi sola nella stanza a aspettare il mio simpatico amico per alcuni memorabili minuti nei quali vidi spuntare i sorrisi di sorpresa tra i più belli che io ricordi nella mia vita: erano altri detenuti che si affacciavano in cerca dei volontari (sul genere anziano frate missionario) e invece trovavano una giovane donna in rosa e blu. Di fronte a quei sorrisi così speranzosi, il mio slancio adolescenziale divenne tutt’uno con l’umanità del presente e mi ritrovai a immaginare la voce esortante di Fabrizio De André che sopraggiungeva dal vicinissimo cimitero di Staglieno. A posteriori pensai che il suono della voce di FdA mi avesse aiutata a contenere l’impatto traumatico con la maschera di disperazione che scorsi nel volto e nel corpo dell’uomo distruttivo da me seguito fin dentro le mura del carcere.
L’incontro tra due paure umane di segno diverso lascia aperta la possibilità che, superato il primo momento di disorientamento, si realizzi un incrocio complementare anziché speculare. Quel giorno per mia fortuna andò proprio così: nel rispecchiarmi in un uomo, solitamente travestito da duro, che in veste di detenuto era visibilmente sconvolto dalla paura e dalla rabbia compressa di essere l’unico artefice della propria sventura, non mi feci cogliere dal panico e provai a sintonizzarmi sulla mia parte più fiduciosa. Purtroppo a lui il colloquio servì a poco o a niente, s’era cacciato in un guaio quasi irrimediabile per gli anni a venire. Per me invece quella fu la spinta decisiva per scegliere, di lì a alcuni mesi, di realizzare davvero l’antica idea di lavorare in carcere.
Sono passati 4 anni da quando lavoravo a Marassi. Ci sono stata 6 mesi, nel periodo appena successivo all’indulto. Figuravo come Educatrice professionale sebbene io sia Pedagogista con specializzazioni in Counselling e Mediazione Familiare e con una variegata esperienza professionale nelle relazioni di aiuto alle fasce deboli.
Nel carcere di Marassi mi sono fatta tutta un’estate compreso il mese di agosto, quello durante il quale in ogni Istituzione Totale che si rispetti - come del resto accade anche agli umani in libera circolazione - aumenta in modo esponenziale il tasso di depressione, di autolesionismo e il rischio di suicidio tra coloro che disgraziatamente si ritrovano sprovvisti di permessi premio o di benefici di legge.
A differenza di quanto in prima istanza si possa pensare, dal punto di vista delle relazioni umane, le fasi post-indulto sono molto più ingestibili di quelle ordinarie. Il problema è dato dalla combinazione di due fattori potenzialmente esplosivi: i detenuti che non rientrano nell’indulto spesso hanno commesso reati particolarmente gravi o ‘infamanti’ e si sentono comunque doppiamente stigmatizzati (se non banalmente sfigati) per il fatto stesso di restare chiusi; la relazione quotidiana educatore/detenuto si trasforma facilmente in un rapporto 1 a 1, la qual cosa tra le cupe sbarre di sconsolate celle presenta enormi controindicazioni e scarsissimi vantaggi.
La consapevolezza costante di questa cornice di riferimento mi ha aiutata molto a sopravvivere senza riportare gravi effetti collaterali a un semestre di ‘volontaria’ detenzione in un carcere maschile.
Ma c’è di più e tengo molto a ricordarlo.
In carcere è solo grazie alla lucidità professionale e alla naturale propensione a mettere in gioco la propria nuda umanità se si crea un rapporto di fiducia tra le persone che ogni giorno entrano e escono e coloro che sono chiusi fino a fine pena.
Analogamente se una donna entra quotidianamente tra le mura del carcere senza sentirsi spogliata giorno dopo giorno della propria femminilità (e se soprattutto non rischia di essere spogliata per davvero) è solo in ragione del riconoscimento di qualità professionali percepibili e di elementi di forza intuitivamente rilevabili.
Sia chiaro, non è che il personale maschile in servizio in un carcere maschile non corra comunque dei rischi nella sfera personale o intima. E' però evidente che la provocazione maschio/maschio in un contesto così rigido si riconduca naturalmente a dinamiche di forza molto più semplici e lineari. Per le stesse ragioni è pur vero che le possibilità di incidere positivamente nella relazione con i detenuti da parte di personale femminile preparato sul piano professionale e umanamente adeguato al contesto, siano maggiori.
Nel mio caso, all’orgoglio di essere stata all’altezza della situazione e alla dignitosa sopravvivenza, si è infine aggiunta anche l’indimenticabile soddisfazione di aver saputo vivere un’esperienza umana e lavorativa di rarissima profondità.
[Fine Prima Parte]


venerdì 15 luglio 2011

Ibridazioni senza maschere

Se metto un garofano rosso vicino a una rosa bianca, nel giro di poche ore, i suoi fiori prendono strane sfumature scarlatte.
Anche il garofano, a ben guardarlo, non resta identico a se stesso: il suo colore in rapporto al bianco è più forte e non subisce trasformazioni; la sua forma, in modo del tutto misterioso, tende però a adattarsi a quella a petali sovrapposti, tipica della rosa.
I due non per forza di cose si amano. Magari nemmeno si parlano o si piacciono granché.
Tuttavia, il richiamo della loro vicinanza - sebbene casuale - porta entrambi spontaneamente a rispecchiarsi con naturalezza e senza alcuna sovrastruttura consapevole.
Questa forma di ibridazione è presente in natura.
Se siano gli dèi - o  piuttosto qualche legge biologica precisamente nota agli umani - a favorire questo scambio tra esseri viventi, non fa molta differenza.
Quel che conta è il significato dell'ibridazione, anche al di là delle apparenze visibili.
Non esiste la possibilità di un contatto autentico che non passi attraverso un processo di contaminazione.
Nelle relazioni umane, con tutte le articolazioni e sfumature peculiari del caso, la faccenda si fa molto più complicata.
Molto spesso succede che le ibridazioni avvengano con tali forzature da indurre forme di rispecchiamento simbiotico o immaginario che finiscono per snaturare le identità dei singoli.
Questo non succede né al garofano né alla rosa.
E nemmeno a una mamma pastore tedesco che per ragioni indipendenti dalla sua volontà si ritrovi a allattare un cucciolo felino abbandonato a se stesso.
Il garofano non corre nessun rischio di diventare una rosa; lei, anche nel mutare il colore dei suoi petali, non perde le spine e non rinuncia alla sua intrinseca eleganza.
La mamma lupa, e il miciotto da lei nutrito, mantengono intatte le loro rispettive nature di cane e di gatto.
Per gli umani (maschi o femmine, adulti o bambini) le contaminazioni derivanti dalla vicinanza hanno effetti collaterali a volte drammatici.
Ci si potrebbe perdere nell'enunicazione di una analisi sociologica sull'effetto dei processi culturali nei rapporti tra le umane genti.
Oppure, molto più semplicemente, osservare le piante e gli animali per smettere di ostacolare con pregiudizi o con rigidità mentali l'incontro con gli altri. 
Imitare le piante, questo dovremmo fare.
Aprirci alle inevitabili contaminazioni, senza timore di perdere la nostra identità (di genere, individuale, di appartenenza), senza avere sospetti aprioristici di essere sopraffatti dalle differenze altrui.
Ricordarci che le lingue da noi parlate qui sulla terra, nascono tutte da millenni di liberi incontri e spontanee ibridazioni linguistiche.
Tenere a mente che la bella musica nasce sempre da un vortice di contaminazioni.
Imprimerci nell'anima e nella pelle che senza contaminarci non possiamo amare.
E al tempo stesso mantenere la consapevolezza che quando amiamo davvero non ci confondiamo con il nostro amore al punto da dover rinunciare a parti essenziali delle nostre identità multiple.
Possiamo veder nascere sfumature di colori nuovi sui nostri soliti petali bianchi; rispecchiarci in forme che ci trasformano; profumarci di aromi insoliti.
Ma restiamo noi stessi fino alla fine anche se proviamo a indossare ogni giorno maschere nuove per compiacere il prossimo, nell'illusione di manipolare la nostra o l'altrui natura come non oserebbero fare gli dèi.


domenica 10 luglio 2011

Eloquio fragile


L'elogio della forza si è indebolito nell'eccesso di fragilità.
L'eloquio sprofonda nell'incertezza, arranca di fronte a inutili esternazioni dialettiche.
Rispecchiamenti essenziali per la vita si sono persi in un gesto secco di negazione.
E' un mutismo mascherato di morte.
A disposizione solo specchi daltonici, un po' stonati.
Metamorfosi animali in femmine umane indebolite.
Voglia di desiderare la bellezza tradita.
L'eloquio fragile diventa il segno di un'altra forza.

domenica 26 giugno 2011

Titoli per giocare


Si dice ci siano poche cose migliori di una bella lettura.
Per chi ama i libri di certo ne esiste almeno una che è davvero preferibile: molte buone letture.
Nelle ultime settimane mi è capitato di passare da un bel libro all'altro, con l'unico intoppo di una imprevista sbavatura murakamiana.
I titoli di questi cinque libri sembrano fatti per giocare a scomporre e ricomporre alcuni mondi a cui rimandano.
Non c'è silenzio che non abbia fine
Kafka sulla spiaggia
Accabadora
La vita davanti a sè
La strada (appena iniziato).
E così Non c'è Kafka che non abbia fine diventa un titolo perfetto per me, nel momento.
Anche La strada accabadora davanti a sé non è niente male.
Resta fuori La vita ma tutto sommato, in questo gioco, è un resto di poco conto.

giovedì 5 maggio 2011

La gatta dagli occhi color minestrone

La gatta dagli occhi color minestrone di solito sorrideva spontanea, salvo eccezioni.
Ma da quando si era rotto il suo lettore MP3-Sony, non le riusciva tanto semplice salutare le persone a suon di generosi sorrisi.
Per lei la musica era l'essenza stessa della vita.
Non esisteva alcun tipo di cibo al mondo che le interessasse quanto un bel brano musicale.
Poteva persino rinunciare a due o tre ore di endemica pigrizia felina pur di godersi una passeggiata in musica tra i vicoli della città vecchia.
Una sera mentre tornava a casa sconsolata, senza musica e senza sorriso, si accorse di essersi presa il raffreddore.
Per la verità era da tempo che soffriva di una strana forma di sinusite, a volte le capitavano pure dei fastidiosi attacchi di torcicollo.
Raro che i gatti, sinuosi e sonodati come sono, soffrano di torcicollo.
Ancora più raro che cadano vittime di crisi improvvise di sinusite.
Senza farsi troppe domande inutili sull'origine dei sintomi, si convinse che l'unico modo per guarire da tutto fosse quello di far riparare al più presto il lettore MP3.
Era evidente che per sciogliere le lacrime compresse impadronitesi delle sue vie respiratorie, e per smuovere il blocco di ghisa depositato sul suo collo,  occorresse il ritmo di buona musica.
Era altrettanto evidente che la cura musicale fosse la sola adatta a farle recuperare il passo scanzonato e a far rifiorire il battito del cuore laddove ora sentiva solo il peso di un sordo vuoto.
La gatta dagli occhi color minestrone aveva sempre avuto uno smisurato bisogno di musica felice.

sabato 23 aprile 2011

Pazza idea (molto felice), gran pastrocchio narrativo (infelice)

Difficile esprimersi su Habemus Papam di Nanni Moretti, altrettanto difficile tacerne.
Viene comunque voglia di dire qualcosa, dalla sua visione non se ne esce indifferenti.
E questo è un merito indubbio.
Al di là del giudizio, Habemus papam è da vedere. Anche se sembra un film diviso in due parti. 
Una prima parte brillante, fluida, sorprendente, soppesata, intelligente, finemente complessa. Bella, anche.
Una seconda parte pasticciata, fuori controllo, ridondante, a tratti noiosa, in ogni caso improbabile fino a diventare grottesca. Non bella, decisamente.
Peccato.
Sembra che gli sceneggiatori e il regista si siano progressivamente fatti permeare dalla stessa folle rappresentazione che intendevano narrare in forma cinematografica.
Alla fine la bellezza della prima parte del film svanisce dissolta in sconclusionati labirinti narrativi.
Che dire poi dell'ostinazione di Nanni Moretti nel volersi proporre e riproporre anche in veste di attore?
La questione della personalità narcisistica - per quanto abbia un suo fondamento - non basta certo a spiegare il fenomeno di un regista che non può non pensarsi attore di se stesso, a costo di guastare l'armonia di un'opera creativa degna di considerazione e, forse, anche qualcosa di più.
Un'altra volta, peccato.





domenica 10 aprile 2011

No more Sun. Domenica senza Sole

Non so quale visione del mondo possa sottendere a un aumento secco del 50% sul prezzo di un quotidiano, in tempo di crisi e in un paese nel quale l'arte della lettura è vista con maggior sospetto della più subdola forma di cartomanzia.
Non so neppure quale idea si siano fatti i sondaggisti sul lettore medio di un inserto culturale tra i più apprezzati nel panorama italiano.
Sia come sia: domenica scorsa per comprare Il Sole 24 ore, con il suo bel Domenicale, si spendeva 1 Euro. Da stamani, zac, si passa direttamente a 1 Euro e 50. Cinquanta centesimi in più, cinquanta percento di rincaro in una botta sola, roba da rendere piuttosto pensierosi. Se la cultura in Italia diventa sempre più spesso una merce di scambio di decisioni impopolari, operate da gente ricca e potente, non resta altro che fermarsi all'ombra di un sole per nulla invitante. No more Sun. Da domenica prossima, niente Sole.

lunedì 21 marzo 2011

Mondo gatto, umanità radioattiva, bombardamenti democratici


Al pensiero del crudele destino che lega il popolo giapponese ai disastri prodotti dalla potenza dell'atomo viene solo voglia di pensare a un mondo governato dai gatti, alla maniera immaginata da Carlo Cassola alla fine degli anni Settanta nel suo bel libro Il paradiso degli animali.
Nessun gatto, per felina che possa essere la sua aggressività e pur nei limiti delle sue ristrette facoltà di analisi, potrebbe mai ideare un sistema così bestialmente distruttivo come quello che prevede la diffusione sulla terra delle centrali nucleari.
L'imperatore giapponese non trova più parole per rivolgersi al suo popolo, infatti non esistono parole capaci di prendere forma senza suonare offensive nei confronti delle umane genti e della natura intera. Sarebbe preferibile una preghiera generica rivolta al 'mondo gatto' che tanta importanza assume nella vita e nella cultura del Giappone.
Non so come si possa immaginare il presente e il futuro del mondo senza la città di Tokyo e senza mezzo Giappone; non so come si possa ipotizzare la diaspora improvvisa cui saranno costretti migliaia di giapponesi portatori, non certo sani, di dosi massicce di radioattività nel tentativo di sopravvivere alla catastrofe nucleare; non so come mezzo mondo continui a voler credere a una contaminazione circoscritta in un pianeta-terra che, com'è noto, è una sfera girevole attorno alla quale soffiano venti potenti e veloci; ma soprattuto non so come gli umani abbiano ancora il coraggio di credere alla favola perversa del primato dell'economia.
Un gatto non crederebbe mai all'idea che l'accumulo illimitato di sfiziosi bocconcini di carni prelibate non gli sarebbe, a lungo andare, letale.
Adesso anche i gatti giapponesi sono tutti nuclearizzati e sono costretti a mangiare scarti radioattivi, a bere acqua contaminata. Ci sono buone probabilità che la città di Tokyo sia prossimamente abitata solo da animali morenti e da qualche fantasma; ma quel che più preoccupa non è certo la sorte degli umani, dei gatti, degli animali o dei fantasmi, bensì la tenuta del mercato finanziario internazionale.
Intanto, il cosiddetto Occidente democratico prende decisioni fondamentali per la diffusione della democrazia nel pianeta e dichiara guerra al pericoloso dittatore libico con il quale, fino a pochi mesi fa, intratteneva traffici di ogni tipo, nonché rapporti cordiali, spinti fino a pagliacceschi trattati di amicizia bilaterale (vedi il caso italiano).
Bisogna infatti ricordare che, nella tardo-modernità a noi contemporanea, il bombardamento democratico è uno strumento di governance globale dal tratto discrezionale e comunque sempre all'apparenza pacificatore: si bombardano le città nelle quali dimorano i dittatori nemici del momento, con nessun interesse per le sorti delle popolazioni civili e militari, ma con l'apparente obiettivo di esportare democrazia, pace, libertà, benessere, giustizia, bontà, valori ecc. ecc. Guarda caso, si tratta dello stesso obiettivo politically correct tanto caro ai seminatori di morte nucleare in nome del progresso economico e energetico globale.
E se un giorno dividessimo il mondo in due parti?
Da una parte della terra tutti gli uomini (e i gatti!) che del primato dell'economia, delle borse mondiali, del progresso energetico a colpi di bombe e di radioattività non sanno più che farsene; dall'altra parte, tutti i forzati della democrazia capitalistica ad ogni costo, con le loro bombe pacifiche giuste buone intellelligenti democratiche, alimentate da super redditizia energia nucleare?

venerdì 4 febbraio 2011

Donne che corrono coi lupi, donne che cenano con Papi

In questi giorni si fa un gran parlare e scrivere e alludere e strillare sull'immagine della donna nella contemporaneità.
Si assiste a uno spettacolo nello spettacolo che lascia a dir poco sgomenti donne e uomini cresciuti pensando alla possibilità di un incontro tra femmine e maschi capace di parlare di bellezza essenziale.
Si invoca addirittura l'amore per indagarne la presenza-assenza in quel di Arcore durante le notti festaiole a base di dosi prestabilite di coca, sesso, squallore, assegni corposi, musiche di Mariano Apicella (per la regia di Lele Mora).
Nella galassia di Facebook compaiono iniziative varie che mirano a far
sentire la voce delle donne poco propense a riconoscersi nel presunto schema binario che continua a ricondurre il mondo femminile verso un unico bivio possibile: donne belle stupide scaltre mantenute puttane / donne racchie intelligenti colte autonome represse.
Non è un caso se il Presidente del Consiglio, nell'imbarazzante tentativo di proteggere la protettrice delle protette minorenni, prepara un discorsetto tutto improntato a far comprendere che lo schema binario per gli utilizzatori finali va ricondotto, infine, a un assioma unico: le donne, pur doppiamente laureate con lode, sono comunque tutte puttane come la dottoressa igienista mentale più famosa della nazione.
Gad Lerner nella sua diretta televisiva (che per amore di verità era davvero al limite dell'inguardabile) finisce infatti col non trattenere l'incazzatura solo quando sente dare delle 'cosiddette signore' alle sue ospiti in studio.
Intanto, Lorenzo Cherubini (Jovanotti), racconta di aver lavorato al suo ultimo CD Ora mettendo al centro Tutto l'amore che ho proprio dopo aver sentito i signori del cosiddetto Popolo delle Libertà parlare di Partito dell'Amore.
Loredana Berté, su un testo di Ivano Fossati, molto tempo fa cantava:
Non sono una signora
una con tutte stelle nella vita
non sono una signora
ma una per cui la guerra
non è mai finita
oh no, oh no…

Non so se da questa triste squallida pagina dello spettacolo nello spettacolo, nella quale siamo immersi tutti (uomini, donne, bambini, gatti, cani, piante), ne usciremo presto.
Uscirne bene, però, è improbabile.
A meno di metterci tutti a cantare in coro, a strofe alterne, Tutto l'amore che ho e Non sono una signora.
Chiudendo, con sostenibile leggerezza dell'essere:
È un volo a planare
per esser ricordati qui
per non saper volare
ma come ricordarlo ora?

mercoledì 12 gennaio 2011

Della memoria e dell'oblio (im)possibile. A un passo dall'abisso




Le parole dei racconti di mio padre: vive di memoria precisa, ancora avvolte da un cono d'ombra di terrore.
6 Agosto '44, colli fiorentini.
Tre ragazzini, i genitori, i nonni, i contadini che li aiutavano, i tedeschi che li cercavano, le bombe dal cielo, la liberazione alle porte.
Il coraggio dei miei nonni, poi un soldato tedesco capace di un gesto di sconcertante umanità.
Il tedesco buono:
"Sind Sie Juden?"
Mia nonna con mio nonno:
"Nein, das ist ein franzoesisch Name"
Sguardi impietriti, un cenno impercettibile con gli occhi dentro al gioco della vita e della morte. Un miracolo a un passo dalla fine, danzando sul filo del baratro, per ritrovarsi inspiegabilmente salvi.
Senza alcuna motivazione apparente. Senza una apparenza di 'giustizia' contestuale. Da accettare e basta, per continuare a vivere. Il senso della storia della propria vita, tra sommersi e salvati.
Eppure ci siamo.
Siamo nati così.

lunedì 10 gennaio 2011

CauteSfide nelle MediaRelazioni

Abstract *

Dal limite nasce il sorprendere. Disabilità, intelligenze altre tra Mediazione e Counseling


Misurarsi con il limite in ogni relazione umana può essere una grande opportunità di crescita.
A partire da un livello di criticità comunicativa (linguistica, dialogica, operativa) piuttosto elevato, l’esperienza di incontro con una giovane ragazza disabile inserita in un contesto familiare-sociale molto attento e presente, si è progressivamente trasformata in una relazione di aiuto dagli esiti inaspettati.
Le criticità che derivano dal manifestarsi esplicito delle imperfezioni comunicative possono funzionare da stimolo per l’attivazione di risorse nuove e di rispecchiamenti positivi che, anche grazie alla professionalità dell’intervento effettuato sotto una scrupolosa supervisione, richiamano implicitamente tutte le persone coinvolte a un triplice livello di cambiamento:

a)      trasformazione interiore
b)      trasformazione relazionale
c)      trasformazione di sistema

Nel contesto di una relazione di aiuto che abbraccia anche l’area della Mediazione, con l’ampia rete di connessioni che la attraversano, riconoscere la possibilità di accogliere nuovi linguaggi espressivi (parole, gesti, sguardi, silenzi) riconoscendo altresì l’entrata in gioco di intelligenze altre, significa favorire il passaggio dalla criticità alla creatività, osando il richiamo a risorse di cambiamento inimmaginabili da un punto di vista strettamente razionale nell’ambito delle disabilità cognitive.
L’utilizzo di forme di dialogo non codificabili a priori, bensì soggette a continue ridefinizioni, non solo consente un processo di trasformazione interiore nei singoli (utente disabile, counselor, familiari, operatori) ma stimola parallelamente il sorgere di trasformazioni relazionali di sistema.
Anche le istituzioni coinvolte in un simile processo di Mediazione si ritrovano inserite, seppur in modo talvolta indiretto, in un percorso condiviso che pone contemporaneamente al centro la persona disabile e il bisogno di attivare nuove risorse utili alla salvaguardia di una piena integrazione, pensata nei termini del maggior livello possibile di autonomia personale.
Ottobre 2010
* Tratto dalla Tesi
‘Mia sorella è come papà, mentre io sono come la mamma’
Rispecchiamenti di identità, linguaggi e intelligenze altre nella relazione di aiuto con i disabili cognitivi e con le loro famiglie

sabato 8 gennaio 2011

Qualcosa è cambiato

Parliamo di guerra. O di presunte missioni di pace, talmente armate, da causare spargimenti di sangue e di morte come capita da tempo a Kabul. Leggo su Repubblica, nel sottotitolo di pagina 14: La Russa: "Kabul, dai militari più trasparenza". Il Pd: basta attaccare le Forze armate. Ora, per quanto si possa essere ormai abituati alla mancanza di direzioni politiche riconducibili a istanze storiche di sinistra o di destra o di centro, non riesco a non avvertire che qualcosa è proprio cambiato. Di questo cambiamento, però, sembra non giovarsi proprio nessuno: né quel che resta della destra e della sinistra e del centro, né tanto meno la società civile (e militare) chiamata a eleggere i propri rappresentanti politici. La democrazia ha i suoi limiti, si sa. Se ne trattava - e con quali lungimiranti argomentazioni - già in epoca antica. Eppure, qualcosa mi sfugge. Mentre tento di immaginare se Zygmunt Bauman liquiderebbe - si fa per dire - anche la mia passeggera perplessità utilizzando il paradigma della contemporaneità liquida, continuo a percepire che qualcosa mi stia sfuggendo. Mi chiedo se rispolverare il dibattito filosofico sul pensiero debole possa avere un senso e non posso non realizzare che oggi è il 'pensiero' stesso a essersi liquefatto fino a trasformarsi in una gigantesca ombra. Un'ombra liquida, fangosa, sfuggente. Un'ombra dietro la quale ci sta tutto e il contrario di tutto. Nel gioco delle parti, liquido o non liquido, ci sta che La Russa finga di contestare i vertici militari d'istanza a Kabul e che il Partito Democratico alzi un improbabile scudo in difesa delle Forze Armate. Del resto, se molti elettori del cosiddetto centro-sinistra non riescono in alcun modo a trattenere la loro sentita ammirazione per le posizioni politiche espresse dal  fu-missino Gianfranco Fini, si è portati a credere che anche i più subdoli cambiamenti attuali tendano a assumere a oltranza le sembianze della sorda abitudine.

giovedì 6 gennaio 2011

Da 'Parole sparse in tutti gli angoli'

E mi accompagna
Uno spicchio di luna
Tagliato di tondo
Sinuoso
Tra luce chiara
E immaginazione di ombra
Quasi a parlare
Sopra la terra
Di quanto resta
Oltre ogni vento
V. 6.9.08

Vorrei

Vorrei che le persone attrezzate di un minimo di cultura e di lungimiranza potessero fare a meno di parlare di bicchieri mezzi pieni o mezzi vuoti
Vorrei non sentir mai più i politicanti e gli opinionisti rivolgersi al presunto 'avversario politico' o interlocutore premettendo che ha il diritto di dissentire
Vorrei che non piovessero sulla terra migliaia di corvi morti
Vorrei che nessuno fosse condizionato da un senso del dovere privo di senso
Vorrei fossero aboliti i 'buoni propositi' per il nuovo anno e mille altre inutili banalità
Vorrei veder fiorire molti luoghi personali al posto di sciocchi luoghi comuni